Le emozioni negative sono frutto dell’automatismo della coscienza. Quando si è presi dall’ira e dalla paura non sempre riusciamo ad applicare Patanjali.
Provate a richiamare alla mente quei momenti della vostra vita in cui vi siete sentiti soli, abbandonati o quando il dolore, la sofferenza sembravano insuperabili e non avere mai fine. Probabilmente sono ben scolpiti nella memoria con davanti un cartello: “Attenzione! Achtung! Beware! Stare alla larga!” poiché tutte le fibre del nostro essere si ribellano all’idea di riprovare emozioni simili.
Non ci addentriamo in questa sede in speculazioni approfondite sull’origine della sofferenza, cosa che peraltro è ampiamente indagata in molti articoli del blog di questo portale, ma ci basterà accennare al fatto che probabilmente essa è dovuta ad una qualche forma di attaccamento, come ci insegna il Buddha…
La sofferenza, fra le altre cose, ci paralizza, ci impedisce di pensare, di agire, di essere creativi, lucidi. D’altro canto sappiamo che è la modalità attraverso la quale il genere umano evolve, infatti noi riconosciamo i nostri limiti vivendo le conseguenze delle nostre azioni e “se non capiamo e cambiamo, ci penserà la vita a cambiare noi” (1) Quindi abbandoniamo subito l’idea che ciò che ci fa soffrire sia causato dagli altri, dalla vita, dal fato… Noi siamo assolutamente responsabili di ciò che ci succede, siamo posti continuamente davanti ai nostri limiti. Il problema è saperli riconoscere, vederli come tali per poi potere iniziare un’opera di trasformazione consapevole.
Le emozioni negative sono uno dei nostri limiti e sono frutto dell’automatismo della coscienza. Difficilmente quando si è presi dall’ira, dalla depressione e dalla paura, o anche quando si è sovraeccitati, si riesce a cambiare umore nello stesso modo in cui si accende o spegne un interruttore. Ma si dovrebbe proprio fare così. Staccarci da noi stessi, dalla parte peggiore di noi che vuole mantenerci in uno stato d’animo sgradevole, implica sì un grande sforzo, ma anche una buona dose di leggerezza.
I nostri pensieri ricorrenti, che purtroppo spesso prendono la connotazione di ossessioni, ci trascinano in un vortice oscuro che ci imprigiona e dal quale pensiamo che sia possibile uscire solo col tempo e la pazienza. Ma non è così. E’ possibile uscirne in tempi brevi attraverso un preciso atto volitivo che ci porta ad indirizzare i flussi della mente ed anche quelli emotivi dove vogliamo noi. Bisogna spostare l’attenzione, “dharana”, non alimentare più quel flusso per poterlo “disinnescare” e rendere innocuo. La vita è là dove puntiamo l’attenzione, a ciò che pensiamo e a ciò che sentiamo.
Quindi all’irritazione dobbiamo sovrapporre la pace e la benevolenza, alla depressione la gioia e la leggerezza. Voi penserete: “Ah! Facile da dire, impossibile da fare.” In effetti non è qualcosa di immediato, ma è possibile e vi stupirete di quanto, grazie all’allenamento, sarete in grado di passare da una condizione all’altra. Se poi vi aiutate con qualcosa di esterno diventa più semplice; e non mi riferisco ad alcool e farmaci, bensì a qualcosa che vi piace e vi fa stare bene.
Anche la sofferenza di cui parlavo all’inizio dell’articolo può essere disinnescata. Una persona che conosco reduce da una storia d’amore che le aveva provocato enorme dolore e cicatrici profonde mi rivelò, dopo una vacanza, che aveva avuto una bellissima ed appagante avventura e si sentiva come se avesse dato un colpo di spugna al passato, cancellato un file completamente. Si chiedeva anche come questo fosse possibile e se era sintomo di superficialità o immaturità emotiva.
Niente di più lontano dal vero. Aveva invece applicato lo Yoga, si era distaccata da un’ossessione distruttiva e si era identificata con un’energia giocosa e gioiosa. Questo è applicare Patanjali.
1M. Rodolfi – Psicologia dello Yoga – ed. Draco
Maria Luisa Valentini